Doveva essere la settimana delle banche centrali, nel senso che le decisioni di Fed, Bce e Boe avrebbero dovuto chiarire il quadro macro e quello relativo alle politiche monetarie, offrendo nuovi spunti operativi. Se dovessimo commentare le price action in relazione a quanto abbiamo ascoltato, invece, dovremmo dire che l’incertezza è aumentata e che l’interpretazione di quanto sta avvenendo non è facile.
Siamo partiti con un Jerome Powell decisamente ottimista verso il futuro, con dichiarazioni relative al fatto che non ci sarà una recessione, ma solo un tenue rallentamento della crescita, mentre l’inflazione scenderà lentamente, rimanendo lontana dagli obiettivi di medio termine della banca centrale. E fin qua tutto abbastanza bene, se non fosse che il mercato ha reagito in modo neutrale. Poi sono subentrate Bce e Boe: entrambe hanno aumentato dello 0.50% i tassi ma con due sensibilità differenti.
La BoE ha infatti parlato di una possibile recessione nonostante l’inflazione resti elevata e necessiti ancora di un aumento dei tassi, mentre la BCE ha spiegato che ci sarà solo un leggero calo della congiuntura e ci saranno altri rialzi dei tassi per riportare l’inflazione nel proprio alveo. Poi, nel pomeriggio di venerdì, è arrivato il dato che ha prodotto più incertezza, con i Non Farm Payrolls che sono usciti ben al di fuori dalle previsioni, con un +517.000 che avrebbe fatto impallidire anche i più ottimisti e un tasso di disoccupazione in calo al 3.4%.
I dati, tuttavia, risentirebbero di alcuni aggiustamenti legati alla stagionalità senza i quali gli Usa avrebbero perso 2.5 milioni di posti di lavoro di cui 400 mila nel settore non agricolo. Quindi, in realtà, 517.000 meno 400.000 porterebbe ad un risultato reale destagionalizzato di +117.000 ossia ad un incremento decisamente inferiore rispetto a quello effettivamente rilevato. In scia a questo dato il dollaro è schizzato al rialzo mentre i listini americani hanno ripiegato, chiudendo leggermente in rosso.
Ma quello che risulta difficile da comprendere sono le correlazioni e la logica che sta dietro ad ogni movimento. L’uscita di dati americani dovrebbe provocare un azionario in ribasso, in ragione delle aspettative di continuazione di una politica monetaria restrittiva, e un dollaro in rialzo in quanto un ulteriore rialzo del costo del denaro lo renderebbe più appetibile in ragione di un delta tasso favorevole rispetto ad euro e sterlina.
In questo contesto non dovrebbe esserci quindi un’avversione al rischio. E allora perché le borse sono scese? Non dovremmo quindi meravigliarci se le correlazioni intermarket si dovessero ribaltare, con un dollaro in ripresa e con le borse che tengono i guadagni. Ma la difficoltà a comprendere i mercati in questa fase è generalizzata perché si tratta di una situazione anomala, ovvero un rialzo del costo del denaro in presenza di un rallentamento economico.
Per ritrovare un periodo similare si deve forse andare indietro negli anni ‘70. Il biglietto verde sta recuperando contro tutte le valute, con un EurUsd che è sceso sotto 1.08 dopo aver toccato mercoledì scorso (quindi due sedute orsono) un massimo a 1.1033, e con prospettive di ribasso fino a 1.0760-50. La sterlina, che risente anche delle aspettative di un Pil in calo (in uscita venerdì prossimo), è tornata sotto 1.2050 mentre UsdJpy è schizzato di 300 pips sulla notizia dei Nfp, con un possibile test della prima resistenza chiave a 131.58, massimo del 18 gennaio scorso.
Questa settimana ci saranno i dati sulla fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan e sulla bilancia commerciale mentre per quanto riguarda le banche centrali occorrerà prestare particolare attenzione alla decisione sui tassi della Rba.
Buona trading e buona settimana.
Saverio Berlinzani
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